E come tanti miei simili mi sono dovuto bere anche le cosmiche stronxate riferite all'interesse sul capitale.
Numeri e numeretti in grado di portare tanta gente al suicidio. Strano da credersi.
Mentre meditavo sulla funzione dell'interesse sul capitale mi è capitato anche di esaminare alcuni passi del Corano, libro sacro per la religione Islamica.
Al riguardo vorrei sottoporvi un piccolo pensiero pescato in rete.
“PECUNIA NON PARIT PECUNIAM”
L’etica islamica, nella prospettiva che gli è propria fin dalle origini, non fa che sviluppare i princìpi comuni alla civiltà abramica nel suo insieme, volti alla “soddisfazione congiunta dei bisogni materiali e spirituali” . Per esempio, il divieto islamico del prestito a interesse (ribâ) era presente anche nel Cristianesimo antico, quando già nel IV e V secolo i Padri della Chiesa, sia greci che latini, vi si opposero strenuamente, richiamandosi, oltre all’Antico Testamento, allo stesso Vangelo (Lc VI,35). Dice a tal proposito il Corano: “Iddio ha permesso il commercio e proibito l’usura”, e anche: “O voi che credete, temete Dio e rinunciate ai profitti dell’usura, se siete credenti”.
Anche il mondo ellenico classico che, come afferma il Papa, fu elemento essenziale per la costituzione della civiltà cristiana a seguito “dell’incontro tra fede e ragione, tra autentico illuminismo e religione” , vedeva nella moneta solo un mezzo simbolico di scambio, l’unità di misura fra due beni tra loro altrimenti incomparabili, che non poteva a propria volta essere misurata e fatta oggetto di tale scambio e quindi venduta o comprata come fosse a sua volta una merce . “Nella dottrina islamica, come nella critica aristotelica alla crematistica, la moneta in sé deve essere improduttiva. Il denaro deve svolgere soltanto la funzione di mezzo di pagamento e unità di conto” .
I grandi filosofi dell’antica Grecia analizzarono con interesse il problema dell’uso della moneta, evidenziandone soprattutto gli aspetti negativi. Se nella Repubblica Platone esprime una condanna assoluta all’uso improprio del denaro , Aristotele afferma chiaramente che la vera funzione della moneta è quella che si ha nello scambio e non nell’accrescimento mediante l’interesse . La moneta è, per sua natura, “sterile”: Pecunia non parit pecuniam, riporta un detto medievale, “il denaro non genera denaro”.
L’etica islamica, nella prospettiva che gli è propria fin dalle origini, non fa che sviluppare i princìpi comuni alla civiltà abramica nel suo insieme, volti alla “soddisfazione congiunta dei bisogni materiali e spirituali” . Per esempio, il divieto islamico del prestito a interesse (ribâ) era presente anche nel Cristianesimo antico, quando già nel IV e V secolo i Padri della Chiesa, sia greci che latini, vi si opposero strenuamente, richiamandosi, oltre all’Antico Testamento, allo stesso Vangelo (Lc VI,35). Dice a tal proposito il Corano: “Iddio ha permesso il commercio e proibito l’usura”, e anche: “O voi che credete, temete Dio e rinunciate ai profitti dell’usura, se siete credenti”.
Anche il mondo ellenico classico che, come afferma il Papa, fu elemento essenziale per la costituzione della civiltà cristiana a seguito “dell’incontro tra fede e ragione, tra autentico illuminismo e religione” , vedeva nella moneta solo un mezzo simbolico di scambio, l’unità di misura fra due beni tra loro altrimenti incomparabili, che non poteva a propria volta essere misurata e fatta oggetto di tale scambio e quindi venduta o comprata come fosse a sua volta una merce . “Nella dottrina islamica, come nella critica aristotelica alla crematistica, la moneta in sé deve essere improduttiva. Il denaro deve svolgere soltanto la funzione di mezzo di pagamento e unità di conto” .
I grandi filosofi dell’antica Grecia analizzarono con interesse il problema dell’uso della moneta, evidenziandone soprattutto gli aspetti negativi. Se nella Repubblica Platone esprime una condanna assoluta all’uso improprio del denaro , Aristotele afferma chiaramente che la vera funzione della moneta è quella che si ha nello scambio e non nell’accrescimento mediante l’interesse . La moneta è, per sua natura, “sterile”: Pecunia non parit pecuniam, riporta un detto medievale, “il denaro non genera denaro”.
“INTERESSE” REALE E RESPONSABILITÀ DI IMPRESA
Un risvolto pratico di tale principio riguarda un tema di estrema attualità come quello, oggi molto discusso, della responsabilità di impresa. Il divieto di interesse, infatti, implica, per esempio, che chi presta il denaro sia consapevole dell’utilizzo che ne viene fatto e partecipi ai risultati dell’impresa, tanto negli utili che nelle eventuali perdite. Anche nel caso delle Istituzioni Finanziarie Islamiche (IFI), è comunque necessaria la partecipazione responsabile del credente innanzitutto sul piano delle intenzioni . Vi è chi partecipa con le proprie competenze e con il proprio tempo e lavoro e chi partecipa solo per mezzo delle proprie risorse; entrambi devono però essere uniti nella stessa responsabilità di perseguire una medesima finalità concreta e condivisa.
Anche in questo senso è interessante notare come lo stesso Pontefice affermi che “sempre meno le imprese, grazie alla crescita di dimensione e al bisogno di sempre maggiori capitali, fanno capo a un imprenditore stabile che si senta responsabile a lungo termine, e non solo a breve, della vita e dei risultati della sua impresa, e sempre meno dipendono da un unico territorio. Inoltre, la cosiddetta delocalizzazione dell’attività produttiva può attenuare nell’imprenditore il senso di responsabilità nei confronti di portatori di interessi, quali i lavoratori, i fornitori, i consumatori, l’ambiente naturale e la più ampia società circostante”.
È ormai indubbio che sia sempre più urgente il recupero di una maggiore “fiducia reciproca e generalizzata” negli scambi commerciali, intesa anche da Benedetto XVI come principio cardine sul quale si deve basare il mercato stesso . Anche il divieto di ribâ, interesse, nasce dalla necessità, nella finanza islamica, di legare ogni profitto a una forma reale di lavoro e a rapporti di reciproca collaborazione e fiducia tra gli uomini: si tratta pertanto di un principio spirituale imprescindibile e volto da sempre ad arginare la creazione di un mondo virtuale e parallelo di speculazione “delocalizzata”, che ha raggiunto oggi, nell’esasperazione di certi modelli finanziari basati unicamente sull’interesse, livelli veramente parossistici. Già un anno fa Christine Lagarde, Ministro dell’Economia Francese, nel paese laico per eccellenza, di fronte alla grave crisi generata da un sistema economico al collasso, aveva in proposito dichiarato: “La finanza islamica presenta vari vantaggi, sopratutto perché condanna la speculazione”.
Su queste stesse basi, un altro aspetto fondamentale della legislazione islamica riguarda il divieto di fondare l’economia sulla libera concorrenza, spingendo invece i credenti a edificarla sulla mutua collaborazione. Più precisamente l’Islam ammette la legge della domanda e dell’offerta, ma il capitale impiegato in un affare economico si lega esclusivamente all’acquisto dei mezzi di produzione e agli altri costi vivi per il conseguimento di un successo economico e non alla messa a frutto di interessi o di speculazioni finanziarie. A tale proposito, la collaborazione con i lavoratori, a cui si deve corrispondere un giusto salario, assume un’importanza rilevante, in quanto attraverso la produzione di beni o servizi essi contribuiscono attivamente all’effettivo rendimento del capitale impiegato e al successo dell’operazione imprenditoriale, unico vero “interesse” reale di tutti.
Un risvolto pratico di tale principio riguarda un tema di estrema attualità come quello, oggi molto discusso, della responsabilità di impresa. Il divieto di interesse, infatti, implica, per esempio, che chi presta il denaro sia consapevole dell’utilizzo che ne viene fatto e partecipi ai risultati dell’impresa, tanto negli utili che nelle eventuali perdite. Anche nel caso delle Istituzioni Finanziarie Islamiche (IFI), è comunque necessaria la partecipazione responsabile del credente innanzitutto sul piano delle intenzioni . Vi è chi partecipa con le proprie competenze e con il proprio tempo e lavoro e chi partecipa solo per mezzo delle proprie risorse; entrambi devono però essere uniti nella stessa responsabilità di perseguire una medesima finalità concreta e condivisa.
Anche in questo senso è interessante notare come lo stesso Pontefice affermi che “sempre meno le imprese, grazie alla crescita di dimensione e al bisogno di sempre maggiori capitali, fanno capo a un imprenditore stabile che si senta responsabile a lungo termine, e non solo a breve, della vita e dei risultati della sua impresa, e sempre meno dipendono da un unico territorio. Inoltre, la cosiddetta delocalizzazione dell’attività produttiva può attenuare nell’imprenditore il senso di responsabilità nei confronti di portatori di interessi, quali i lavoratori, i fornitori, i consumatori, l’ambiente naturale e la più ampia società circostante”.
È ormai indubbio che sia sempre più urgente il recupero di una maggiore “fiducia reciproca e generalizzata” negli scambi commerciali, intesa anche da Benedetto XVI come principio cardine sul quale si deve basare il mercato stesso . Anche il divieto di ribâ, interesse, nasce dalla necessità, nella finanza islamica, di legare ogni profitto a una forma reale di lavoro e a rapporti di reciproca collaborazione e fiducia tra gli uomini: si tratta pertanto di un principio spirituale imprescindibile e volto da sempre ad arginare la creazione di un mondo virtuale e parallelo di speculazione “delocalizzata”, che ha raggiunto oggi, nell’esasperazione di certi modelli finanziari basati unicamente sull’interesse, livelli veramente parossistici. Già un anno fa Christine Lagarde, Ministro dell’Economia Francese, nel paese laico per eccellenza, di fronte alla grave crisi generata da un sistema economico al collasso, aveva in proposito dichiarato: “La finanza islamica presenta vari vantaggi, sopratutto perché condanna la speculazione”.
Su queste stesse basi, un altro aspetto fondamentale della legislazione islamica riguarda il divieto di fondare l’economia sulla libera concorrenza, spingendo invece i credenti a edificarla sulla mutua collaborazione. Più precisamente l’Islam ammette la legge della domanda e dell’offerta, ma il capitale impiegato in un affare economico si lega esclusivamente all’acquisto dei mezzi di produzione e agli altri costi vivi per il conseguimento di un successo economico e non alla messa a frutto di interessi o di speculazioni finanziarie. A tale proposito, la collaborazione con i lavoratori, a cui si deve corrispondere un giusto salario, assume un’importanza rilevante, in quanto attraverso la produzione di beni o servizi essi contribuiscono attivamente all’effettivo rendimento del capitale impiegato e al successo dell’operazione imprenditoriale, unico vero “interesse” reale di tutti.
...ma allora perchè dobbiamo versare gli interessi alle banche che ci danno i "nostri" soldi.
Proviamo a fare due calcoli.
Quando un privato cittadino prende i soldi dalla banca (usuraia) cosa fa? Prende soldi e li restituisce aggiungendogli un importo calcolato attraverso una percentuale, per esempio il 5 per cento. Cioè per ogni cento denari dovrà restituirne la ventesima parte più l'importo preso in prestito.
100 al 5% = 100+5 = 105
Fin qua sembrerebbe tutto regolare, ripeto sembrerebbe.
Il signore che ha preso il denaro ci rimette il 5% di quanto ha avuto in prestito. Adesso, però, vediamo quanto ha guadagnato la banca (usuraia).
La banca prende pezzi di carta colorata dalla BCE al 2% (per esempio) e lo presta al 5% (sempre per esempio).
Secondo voi quanto ha "guadagnato"? Semplice, mi risponderete, ....
......la banca ha guadagnato il 3%!!!!!!! Cioè 5%-2%.
SBAGLIATO
Se io acquisto una merce a 2 e la rivendo a 5 ho guadagnato 3,
ma non il 3%
Rivendendo ciò che ho pagato a 2 a 5 ho guadagnato (io banca) il
150%
Prendiamo 2, lo moltiplichiamo per 150 e lo dividiamo per 100 e otteniamo
3
La banca che prende denaro dalla BCE al tasso del 2% e lo presta al "povero Cristo" al 5% ha guadagnato il
150%
Questa è l'usura del sistema bancario
Lo stato iTagliano protegge gli "interessi" della banche attraverso la legge. La legge, in materia finanziaria, viene fatta "osservare" dalla Guardia di Finanza (non potrebbe fare altrimenti!).
Ma allora vuoi vedere che la Guardia di Finanza fa gli interessi delle banche? Vuoi vedere che i soldi che noi versiamo per il debito pubblico non sono altro che soldi di interessi a tassi esageratamente usurai. E vuoi vedere che chi difende questa ignominia sono proprio coloro che dovrebbero proteggere gli interessi di un popolo?
Ribaltiamo la situazione al "povero Cristo"
Ritorniamo all'esempio del "povero Cristo".
Nel momento in cui ha preso i soldi "a interesse" dalla banca (usuraia), lo ha fatto per acquistare una merce che avrebbe rivenduto con il guadagno del 20%. Nulla di speciale: una partita di patate novelle.
Se un amico gli chiede soldi in prestito, secondo voi a che "tasso" deve prestarli?
Se mi dite al 20% vuol dire che "commercialmente" è esatto. Se, però, presta quel denaro al 20% il nostro "povero Cristo" è un usuraio.
....ma lo stesso denaro è stato prestato dalla banca con un guadagno del 150%.
Si potrebbe obiettare, usando la stessa logica con cui definisci le banche "usuraie", che se il "povero Cristo" ha preso in prestito dalle banche al 5% e ha prestato al 20%, sta guadagnando il 300%...
RispondiEliminaPS: in bocca al lupo per la candidatura ;)