di Mario Apicella
Quando ha preso piede nel dopoguerra l’agricoltura industriale, le nostre mele hanno subìto di colpo un triplice processo di degradazione
Tra i proverbi più famosi che l’Italia del dopoguerra aveva mantenuto, quello della mela al giorno per togliere il medico di torno era tra i più noti. Il proverbio in realtà è conosciuto ovunque, dagli Stati Uniti all’Europa, essendo di fatto la mela apprezzata come medicamento fin dall’antichità.
Le sue proprietà più evidenti riguardano la capacità di fungere da tonico muscolare e nervino, diuretico urolitico, antireumatico, antisettico intestinale, stimolante e decongestionante epatico, depurativo sanguigno e ringiovanente tissulare. Il tutto grazie alla presenza dei più importanti minerali - tra cui Ferro, Silicio e Cobalto - di diversi composti organici ed di note vitamine B1 e B2, C, Acido pantotenico nonché, soprattutto nella buccia, di vitamina PP.
Per un solo alimento queste proprietà e queste componenti, sono una vera ricchezza, che si potrebbe rimarcare per tutta la frutta e tutti gli ortaggi prodotti in modo naturale. Le mele tuttavia, per l’abbondanza con cui si è stati in grado di coltivarle, conservarle e quindi commercializzarle, sono da sempre destinate ad una larga diffusione e ad un notevole apprezzamento.
Quando ha preso piede nel dopoguerra l’agricoltura industriale, le nostre mele hanno subìto di colpo un triplice processo di degradazione:
1) Con le concimazioni chimiche i componenti essenziali si sono disarmonizzati producendo, ad esempio, minore resistenza alle malattie, minor profumo, minore sapore, minore conservabilità.
2) Con la selezione, la pubblicizzazione ed una ben congeniata imposizione di alcune varietà 'più produttive' (provate a cercare nei vivai come sui banconi dei supermercati qualcosa di diverso da Stark, Golden, Stayman, Renetta del Canada e Grany smith) si è verificata una notevolissima riduzione delle varietà coltivate, che oggi si contano sulle dita di una sola mano mentre a livello locale per la sola Italia si parla di 1.000-2.000 varietà esistenti (delle 200.000 stimate a livello mondiale), moltissime delle quali chiaramente a serio rischio di estinzione.
3) Con i trattamenti chimici prima e dopo la raccolta è stato imposto un indiscutibile innalzamento della loro tossicità che va ad alimentare l’effetto cocktail che indebolisce costantemente il meraviglioso corpo degli organismi viventi che se ne nutrono.
L'agricoltura integrata fingendo di rispettare l’ambiente, in realtà fissa perfidamente dei limiti ai quantitativi di concimi chimici, disserbanti e pesticidi
Nell’appassionata ricerca che viene fatta per recuperare le vecchie varietà locali di frutta, la scoperta più eclatante che risalta al cuore è proprio la resistenza alle malattie che dette varietà manifestano. Sembra quasi che nel perverso gioco della fantapolitica, ci sia stato un complotto per eliminare le più resistenti e costringere quindi il semplice contadino ieri e l’imprenditore agricolo oggi a trattare chimicamente un prodotto che nei secoli l’uomo aveva selezionato per nutrirsi, prevenire malattie ed epidemie, nonché curarsi.
L’ultima trovata in ordine di tempo da parte dell’industria agroalimentare è stata il lancio dell’agricoltura integrata, una vera e propria truffa che, fingendo di rispettare l’ambiente, in realtà fissa perfidamente dei limiti (spesso anche elevati) ai quantitativi di concimi chimici, disserbanti e pesticidi (pericolosissimi insetticidi e allucinanti funghicidi soprattutto), largamente utilizzati da questo tipo di agricoltura intensiva che, grazie ad un’acclamata riduzione dei limiti massimi imposti per legge, è riuscita a rubare all’agricoltura biologica i contributi che la normativa europea metteva a disposizione degli agricoltori bio per integrare il loro reddito, che sono stati così dirottati a sostegno di questa agricoltura inquinante che autogarantisce (senza controlli in campo) l’adesione ai disciplinari chimici.
Nella famosa Valle di Non il Comitato per il Diritto alla Salute, che vanta un migliaio di aderenti, sostiene giustamente che le mele avvelenano anche chi non le mangia. Di fatto la frutticoltura intensiva del melo praticata in Trentino (con estensioni medie della proprietà contadina di un solo ettaro) dove ci sarebbero tutte le possibilità per coltivare con il metodo dell’agricoltura biologica (come già fanno il 6% delle aziende) oltre ad un forte impatto paesaggistico, presenta un insostenibile inquinamento ambientale (aria, acqua e suolo), un serio pericolo per la salute pubblica, un indescrivibile limite alla qualità della vita, un marcato aumento delle patologie oncologiche.
In Trentino vengono utilizzati mediamente circa 58 kg/ha/anno (nei meleti Trentini coltivati con il metodo della truffa integrata si arriva a circa 90 kg/ha) di pesticidi, contro una media nazionale (comunque alta) di circa 9 kg/ha per un totale di oltre 2.150.000 kg di pesticidi venduti in Trentino nel 2010 (miliardi di euro all’anno di rendita diretta per l’industria farmaceutica, a cui si andranno ad aggiungere tutti i ricavi indiretti derivanti da chemioterapia e medicine palliative conseguenti).
Nella famosa Valle di Non il Comitato per il Diritto alla Salute sostiene che le mele avvelenano anche chi non le mangia
Molti dei nostri lettori si chiedono puntualmente come sia possibile che tutto ciò possa accadere. Non siamo assolutamente lontani dalla realtà se ricordiamo che le sperimentazioni nelle università di agraria, di veterinaria, di medicina e di farmacia - nonché negli svariati enti di ricerca - sono in massima parte sponsorizzate da multinazionali farmaceutiche che dal dopoguerra si sono letteralmente tuffate nel bussines agricolo, vero e proprio giacimento di arricchimento illecito per il loro futuro.
Vengono quindi puntualmente commissionate ricerche sui vantaggi di questo e di quell’altro prodotto chimico, mentre le ricerche 'indipendenti' di studiosi che considerano la tossicità dei residui chimici, lo scarso valore nutritivo dei frutti maltrattati, la riduzione delle proprietà organolettiche delle derrate agricole 'medicate', venivano e vengono puntualmente scartate dalle riviste 'scientifiche' che guarda caso hanno come sponsor, se non come proprietarie, le stesse multinazionali di sempre.
Questa determinante precisazione sfugge, o non è presa in considerazione, da quasi tutti i 'giornalisti scientifici' che si affannano a cercare negli studi esistenti pubblicazioni che possano parlare bene del biologico, ad esempio, e male del chimico, per concludere infine - su importanti riviste lette da decine di migliaia di persone - che i prodotti bio sono più pericolosi dei prodotti trattati o che grazie alle concimazioni chimiche il grano è più ricco di glutine per cui ci dà una pasta che regge meglio alla cottura.
Bisognerebbe invece avere una chiave di lettura più consapevole per comprendere meglio cosa ci viene rifilato e perché ci viene venduto, altrimenti si rischia di rimanere vittime dell’idea malsana che chiunque scrive o appare in televisione con un candido camice bianco non stia sponsorizzando una volgare merce, ma stia proclamando una profonda verità. (“L’ho sentito in televisione”, “lo ha detto il dr. Balanzone”, “dicono che è meglio”).
Bisognerebbe avere una chiave di lettura più consapevole per comprendere meglio cosa ci viene rifilato e perché ci viene venduto
Intanto nel distretto cinese di Luòchuân Xiàn, in una enorme vallata oggi anche conosciuta come “Terra delle mele” sono entrati in produzione 23.000 ettari di meleti industrializzati (tutto l’Alto Adige produce mele su 18.000 ettari) per cui ben presto una milionata di tonnellate di mele cinesi invaderanno il mercato mondiale fregandosene di agricoltura bio e truffa integrata, mentre i nostri ricercatori sono ancora sponsorizzati per creare varietà che, dopo la raccolta precoce di frutti acerbi e senza sapore (a volte con l’utilizzazione di sostanze che ne agevolano il distacco dall’albero), resistano alla dispendiosa conservazione a freddo e in atmosfera controllata.
Se questa è la tendenza soffocante che rende finto e spesso tossico ogni alimento prodotto industrialmente non dobbiamo dimenticare che esistono meravigliose varietà locali di frutta che possiamo salvaguardare, recuperare e valorizzare, partendo proprio dai nostri determinanti comportamenti quotidiani.
I contadini che custodiscono queste risorse sono in ogni campagna, alle porte di ogni città o addirittura all’interno delle stesse mura cittadine. Serve entrare in contatto con loro, chiedere semplicemente che alberi da frutta sono presenti in azienda, se vengono trattati chimicamente, che nome si ricordano eventualmente per le diverse varietà, quando si possono raccogliere, se è possibile assaggiarle.
Avere un contadino per amico significa avere piu possibilità di reperire cibo genuino, di superare i black out o gli scioperi dei trasportatori, di spendere meno e meglio, di aiutare le uniche persone che lavorano per produrre cibo (avendone affianco 4 a testa stipendiate per legiferare, consigliarli, agevolarli, promuoverli, controllarli e multarli).
Molte Regioni presentano nei loro siti elenchi e descrizioni di queste varietà. La Toscana ad esempio conserva (senza riuscirà ancora a valorizzarle) con un'apposita legge, ben 450 varietà di fruttiferi tra cui 80 mele, 70 pere, 27 ciliegie. Altre 6 Regioni (Lazio, Emilia e Romagna, Marche, Umbria e Basilicata) hanno una legge per la tutela e la valorizzazione di questa biodiversità locale.
Esistono meravigliose varietà locali di frutta che possiamo salvaguardare, recuperare e valorizzare
Il parco della Majella ha un interessante progetto intitolato Coltiviamo la biodiversità. La Puglia ha un atlante di produzioni tipiche locali in cui sono iscritte diverse varietà di fruttiferi. Una piccola associazione sull’Amiata lavora da sei anni su 168 varietà di vegetali locali. Sempre più vivai si specializzano nella produzione di antiche varietà di fruttiferi non sempre locali, ma comunque ammirevoli.
Una soluzione più radicale, che non ci stancheremo di proporre, vede la redazione di un manifesto per una reale sovranità alimentare in cui la tracciabilità dei prodotti chimici venga resa obbligatoria attraverso l’emissione di fatture conseguenti una specifica prescrizione.
L’Europa fa finta di pensarci, mentre in Italia serve una consapevole convergenza delle associazioni ambientaliste e delle stesse associazioni di categoria che rompa l’omertà insulsa su un argomento determinante per la salute di tutti ed il futuro del nostro cibo, delle nostre acque, della nostra agricoltura.
A poco serve denunciare l’aumento dell’inquinamento da pesticidi e l’escalation dei tumori tra i contadini se non si va alla radice del problema. Intanto, mentre Legambiente si coinvolge, la Cia ci vuol pensare, qualche agronomo si aggrega e due politici si fanno avanti. Serve un atteggiamento consapevole di chi ha imparato a ragionare: cerchiamo i coltivatori custodi, collaboriamo con loro affinché la biodiversità locale non venga dispersa e abbandonata come sta avvenendo in modo insulso per la Banca del Germoplasma di Bari, scriviamo ai nostri sindaci perché tutelino la nostra salute come è loro dovere. Se ci sapremo muovere, senza neanche agitarci troppo, prima o poi, ne siamo certi, una risata seppellirà gli ingordi e gli arroganti e i medici 'di torno' saranno meno ipocriti.
I semi del cibo a rischio - Campagna per la salvaguardia dell' agro-biodiversità Italiana